Gli USA e gli Stati europei hanno considerato Israele la testa di ponte dell’Occidente in Medio Oriente, garantendogli 80 anni di impunità anche laddove commetteva crimini in violazione del diritto internazionale. Le tragedie di Gaza e della Cisgiordania ne sono l’ennesima terribile riprova.
di Giuseppe Cassini
Pubblicato il 18 Aprile 2025, centroriformastato.it
Era il giorno della Parasceve, vigilia della Pasqua ebraica. “Giunta l’ora sesta, fu tenebra in tutta la Terra fino all’ora nona, quando Gesù gridò: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” Qualcuno degli astanti nei pressi della croce diceva: “Sta invocando Elia, vediamo se Elia viene a salvarlo.” No, Gesù non invocava il profeta ma il Signore stesso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Lo invocava in aramaico, la lingua comune in quell’area, affine all’ebraico e all’arabo: tutte lingue semitiche, come semiti erano chi le parlava. È curioso che oggi sia definito antisemita solamente chi è antiebraico: non sono forse semiti anche i palestinesi? Perché è l’ebraismo ad appropriarsene? Forse per mantenere il “monopolio” dell’Olocausto rispetto a ogni altro genocidio?
Il 18 marzo scorso a Gaza la strage del Ramadan ordinata da Netanyahu – uomini, donne e bambini senza distinzione – ha rotto la tregua concordata a gennaio. Proprio quel giorno Netanyahu doveva presentarsi al tribunale in cui è imputato per corruzione; e così l’ha scampata ancora una volta. Ripresi dunque i massacri, la sera del 23 marzo i militari israeliani hanno trucidato a freddo 15 medici e infermieri palestinesi, sotterrando in fretta i loro corpi nel tentativo di nascondere l’eccidio. Ma un cellulare rimasto aperto aveva ripreso la scena, ora di pubblico dominio. L’unico sopravvissuto, Munther Abed, ha raccontato che in quegli attimi si era preparato a morte sicura mormorando la shahàda, la testimonianza di fede (“Dichiaro che non c’è altro Dio al di fuori di Lui e che Maometto è il suo Profeta”). Di fronte a tale barbarie l’IDF ha promesso di aprire un’indagine. In attesa dei risultati – che non arriveranno mai – l’aviazione ha proseguito la sua “pulizia etnica” fino a bombardare, il 13 aprile, l’ospedale al-Ahli, l’ultimo dei 36 centri sanitari colpiti in tutta Gaza. Ormai si è superata di gran lunga la soglia dei 50.000 morti, salutata dal plauso osceno del presidente Trump, che forse conosce il detto: “Una sola morte è una tragedia, un milione di morti non è che una statistica”.
Le Nazioni Unite, inermi come sono, non hanno potuto far altro che implorare Israele di rispettare i principi umanitari costantemente violati tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. La Corte Penale Internazionale ha emesso contro Netanyahu e il suo ex-ministro della Difesa Gallant un mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Per tutta risposta Netanyahu ha definito quell’imputazione “vergognosa e antisemita” (trascurando per l’ennesima volta il dettaglio che anche i palestinesi sono semiti) e ha reagito con una decisione che la dice lunga sul suo disprezzo verso la massima istituzione mondiale: ha dichiarato persona non grata in Israele Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU. Negli annali del Palazzo di Vetro non si ricordano precedenti di altrettanta gravità. Per somma ingratitudine, il Governo Netanyahu dimentica che il suo Paese è stato tenuto a battesimo nel 1948 proprio dalle Nazioni Unite, da cui ricevette la legittimità necessaria per entrare a pieno titolo nel novero delle nazioni.
Come ha gestito Israele la sua giovane esistenza? Sradicando fin da subito le popolazioni locali dai villaggi dove convivevano da secoli musulmani, cristiani ed ebrei. Finché, nel 1956, il mondo capì quale posizione avrebbe assunto il nuovo Stato nelle crisi internazionali. In un estremo rigurgito imperiale Francia e Gran Bretagna, maggiori azionisti della Compagnia del Canale di Suez, attaccarono dal cielo, dal mare e da terra l’Egitto di Nasser che aveva osato nazionalizzare il Canale. Israele si schierò con le due potenze, partecipando attivamente agli scontri e occupando il Sinai. Dovette intervenire il presidente Eisenhower a fermare l’aggressione; fu quella la prima e l’ultima volta che gli Stati Uniti dissero no a Israele. Nei 70 anni successivi Washington gli ha concesso ogni libertà: quella di sfidare quotidianamente il diritto internazionale, di farsi la propria bomba atomica, di pretendere armamenti gratuiti (ogni anno Israele riceve in dono 3,8 miliardi di dollari per la difesa). Lo riconosceva già tempo fa Moshe Dayan: «I nostri amici americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi incassiamo i soldi, prendiamo le armi e snobbiamo i consigli».
Nel 2007 due docenti di fama – John Mearsheimer della Chicago University e Stephen Walt di Harvard – osarono pubblicare uno studio (“The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy”) che poneva un quesito mai posto prima: come è possibile che la superpotenza per eccellenza si pieghi costantemente agli interessi di un piccolo Stato medio-orientale? La risposta si trova nel volumetto tradotto anche in italiano (Mondadori, “Israel Lobby e la politica estera americana”, 2007). I due illustri politologi confessarono in seguito quanto era stato arduo farsi ospitare nel mondo accademico americano per presentare il loro libro.
Ora il governo estremista di Israele – una mano sul mitra e l’altra sulla Bibbia (”Stabilirò il tuo confine dal Mar Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al fiume” Esodo, 23,31) – sta finendo di dilapidare tutto il credito accumulato con la Shoah. Ma non sarebbe giusto attribuire agli israeliani ogni responsabilità: una parte consistente va scaricata sugli Stati Uniti e sugli altri Paesi che hanno perdonato a Israele ogni nefandezza, ritenendola “l’unica democrazia in Medio Oriente” o – più cinicamente – “la testa di ponte dell’Occidente” in quell’area calda del globo. Anche un bambino capirebbe che 80 anni d’impunità non possono che aver generato nel popolo ebraico, di fronte a tante sofferenze, una corazza d’insensibilità.
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